LIBRO DI VETTA
Racconti di emozioni verticali
POKER NONA
( testo di Stefano Nesti )
Il sesto grado, il
regno dell'impossibile, il limite umano insuperabile, è stato ormai sfatato da
diversi
decenni, ed i risultati dell'arrampicata, sembrano avanzare senza limite. Nel
mondo verticale, l'impossibile sembra non esistere più, è solo questione di
tempo e poi arriverà qualcuno con qualità eccezionali che sposterà ancora una
volta il limite un po' più in avanti. Ma cosa era l'impossibile? Questa la
domanda che un bel giorno mi ha fatto venire l'idea di viaggiare nel tempo alla
ricerca del mito. In Toscana, sulle montagne di casa, le Alpi Apuane, ho
iniziato ed imparato a scalare, e dopo ogni viaggio in terre più blasonate torno
sempre con rinnovato entusiasmo sulle “mie” pareti alla riscoperta di vecchie e
nuove emozioni, ribadendo a me stesso, che queste rocce ed i suoi ospiti non
sono mai stati secondi a nessuno. É dai primi anni 2000, che avendo percorso
buona parte degli itinerari esistenti sulle Apuane, vado periodicamente alla
ricerca di vie dal sapore e dal fascino di altri tempi, scoprendo spesso veri e
propri capolavori della natura e dell'uomo, inspiegabilmente caduti nel
dimenticatoio. Complice di queste avventure sovente è il mio compagno Nicola
Andreini, pluri testato in una decade di alpinismo assieme, e di lunghe cadute
arrestate vicendevolmente. É proprio con Nicola, che dopo aver salito le grandi
glorie del passato apuano, ci siamo ritrovati con il naso all'insù ed il collo
dolorante per la retro versione della testa, ad ammirare la parete sud ovest del
Nona con i suoi 200 metri di roccia strapiombante. Entrambi sapevamo che il
“nostro” passato, ed il nostro futuro passava per li, ma l'idea di penzolare per
ore appesi alla “storia” non entusiasmava nessuno dei due. Per me quella è
sempre stata la parete del mito, fin da piccolo quando all'età di 11 anni ci
transitai sotto per la prima volta, e mi vennero le vertigini solo a guardarla.
Come è ben noto, molto spesso quello che ci incute timore subdolamente lo
desideriamo, forse proprio per il fascino e la potenza che emana su di noi.
Motivo per cui appena sono stato padrone del grado, con l'ideatore di una delle
più belle vie di tutte le Apuane, Stefano Funk, sono andato a ripetere la sua
creazione, la via “Fantastica” proprio sull'affascinante muraglia del Nona. Non
passò molto tempo che nel maggio del 2003 ero nuovamente appeso su quella
magnifica via, ma questa volta da solo, realizzando al di là della prima
solitaria di quella via, un importante analisi introspettiva. Appena un paio di
anni dopo, ed ancora su quella parete per la prima ripetizione della via “Camera
con vista” questa volta con Nicola Andreini. Ancora un anno e nel 2006 con il
mio primo maestro Mauro “dondi” nuovamente su “Fantastica” , questa volta
leggeri e veloci, scalandola in conserva, con solo 10 metri di corda,
realizzando il concatenamento di questa in ore 2:02 più “Crudelia” al monte
Procinto in ore 1:25. Insomma questa per me è la parete apuana, del sogno, dei
desideri e delle angosce, e non potevo esimermi dalla conoscenza degli itinerari
che negli anni dei sogni, dei fantasmi e dell'impossibile, i grandi alpinisti
locali avevano superato con immenso coraggio ed ardimento.
Proprio questo enorme baluardo di roccia, è rimasto per anni una sfida aperta, respingendo ogni tentativo di salita, e creandosi il mito di “parete impossibile”. Anche i fortissimi fratelli Ceragioli, che dagli anni ‘30 per alcuni decenni hanno dominato la scena apuana, spostando con ogni impresa il limite dell'impossibile, erano capitolati di fronte all'incubo giallo di questa parete, e fu solo molti anni dopo, con l'avvento del chiodo a pressione che si fece luce una possibilità di salita con successo. Ancora una volta 2 fratelli, i Vaccari di Genova, entrambi ventenni, che dopo alcune ricognizioni intuirono una probabile linea di salita proprio nel cuore della parete, dove appunto i Ceragioli desistettero. Ci vollero parecchi giorni di duro lavoro, e ben 2 bivacchi, per avere ragione nel settembre del 1966 su quell'incredibile appicco, denominando la via S.U.CAI. GENOVA (scuola universitaria stazionamento C.A.I .Genova ). La strada era ormai aperta, ed uno degli ultimi miti era crollato. L'impossibile non esisteva più, ed in pochi anni altre cordate , tra cui quella Piotti / Bresciani nel 1969 aprirono la via “Licia”, dedicata alla moglie di Bresciani, ed i forti fiorentini, G.
Bertini, E. Dei, M. Lopez, M. Verin, nel 1971 realizzarono l'omonima via dei “Fiorentini”. In ultimo ancora il Bresciani questa volta con M. Rossi, L. Sigali, A. Angelini aprirono la via Corrado dedicata questa volta al Figlio. I trucchi del mestiere, me li aveva insegnati al corso guide, direttamente uno dei migliori artificialisti esistenti, Lorenzo Nadali, ma informazioni concrete su queste vie sembrava non averle nessuno, tranne il noto alpinista locale Alberto Benassi, il quale mi aveva scritto una mail con sommarie indicazione delle vie, ed il veterano Stefano Funk che mi aveva fornito un quadro storiografico della parete. Comunque nessuna certezza sull'attuale stato di chiodatura.
Il
2 novembre del 2007, in una tersa mattina autunnale, con Nicola ci presentammo
all'attacco della “Licia”, ancora dubbiosi sull'esito della giornata. Una volta
individuato l'attacco, la salita trascorse staffa dopo staffa verso l'ignoto, in
un vuoto infinito, e ben presto i piccoli chiodi a pressione arrugginiti, tanto
temuti nei primi passi, divennero i fidi alleati che come le briciole di pane di
Pollicino, ci indicavano la via che si perdeva in alto nel cielo oramai sempre
più scuro. Nei tempi in cui questa via fu aperta, era addirittura considerata
super chiodata, ed era prassi comune andare via veloci da staffa a staffa,
spesso solo in A0, dove possibile, tirando i rinvii, e moschettonandone uno ogni
tanto. Amici già attivi negli anni ‘70, mi narrano addirittura di imprese
mirabili e tempi da record su questa via come la cordata Barbolini-Passaleva
(sicuramente meno di 50 anni in 2 all'epoca) che la fecero anche in discesa,
scalando in artificiale. Per noi le cose sono andate ben diversamente. La
fiducia data ai chiodi di 40 anni vista mare, è stata molto scarsa, infatti al
terzo tiro mi è rimasto in mano il primo ricordo della via, motivo per cui
abbiamo fatto i tiri con calma prendendosi il tempo di rinforzare alcuni chiodi,
mentre per riportare il livello di rischio ad uno standard quanto meno
accettabile, abbiamo rinforzato le soste peggiori con un fix inox 68x10. Il buio
di una magnifica notte stellata senza luna ci avvolse che eravamo da poco
ripartiti dalla cengia mediana, e da li in poi fu una silenziosa fuga verso
l'alto immersi nelle tenebre. La lampada frontale ci permetteva di vedere solo
pochi metri sopra e sotto di noi, ed il vuoto infinito che si percepiva
sottostante risucchiava il fascio di luce in maniera molto suggestiva. Alle
ore 22:00, oltre la parete, eravamo sul crinale del monte Nona, seduti in
silenzio ad ammirare ciò che i nostri occhi non potevano vedere, stanchi, e
spenti come le nostre lampade, ma soddisfatti e gioiosi nei nostri animi. In
religioso silenzio percorremmo il crinale di rientro “ascoltando” ciò che
nessuno avrebbe potuto udire. Solo alcuni giorni dopo, parlando della salita, e
cercando di reperire informazioni sugli apritori, venni a sapere che anche il
Bresciani, colui che credevo ancora vivo, si era spento pochi giorni prima della
nostra salita e che le sue ceneri secondo sua volontà, riposano all'ombra di
quella stupenda parete. Il suo “GO” era stato con noi che a nostro modo gli
avevamo reso omaggio. Che forti emozioni facciano sviluppare all'organismo
endorfine, è un dato di fatto, e noi da forti “drogati” di brivido, una volta
passata l'euforia di quella salita entrammo ben presto in astinenza da Nona.
Quella parete, e quella via in particolare ci avevano fatto vedere così da
vicino un affascinante mondo scomparso, del quale volevamo a tutti i costi
saperne di più. Per capire il presente è infatti fondamentale conoscere il
passato. Ormai era deciso, di quella parete volevamo salire tutte e quattro le
vie che avevano segnato quell'epoca troppo spesso snobbata e criticata per l'uso
di mezzi “poco etici” come appunto il chiodo a pressione. Passarono poche
settimane ed eravamo nuovamente sotto la grande muraglia, questa volta con la
velleità di provare la via Corrado, che viste le poche ore di luce di cui
disponevamo ci sembrava più idonea non essendo eccessivamente lunga. L'inverno
era arrivato senza che noi ce ne fossimo accorti, ed una temperatura sotto zero
con forte vento improvviso, ci fecero calare le doppie appena arrivati alla
prima sosta. Fu bello ed emozionante ugualmente, non avevo mai visto la grande
volta del Nona decorata di grosse stalattiti di ghiaccio. Lasciammo trascorrere
l'inverno per dedicarsi a meno angoscianti attività, e come le giornate
riallungarono, all'alba del 4 aprile 2008 eravamo nuovamente con i piedi sulle
staffe per riprendere la partita interrotta. La giornata mai banale trascorse
bene e senza intoppi, facendoci guadagnare la sommità della parete in un tempo
relativamente veloce. Grazie poi ad una linea di doppie estremamente aeree,
fuori via, attrezzate e suggeritici da Alberto Benassi, in breve tornammo con i
piedi per terra. Ormai eravamo nel pieno della partita e ci sentivamo pronti per
affrontare la grande incognita. La salita dei fratelli Vaccari. Appena un mese
dopo ed il 9 aprile 2008 eravamo nuovamente pronti alla battaglia, armati di
tutto punto e fiduciosi nella buona sorte. La solita fila di chiodini a
pressione si perdeva verso l'alto in una fuga infinita, e noi con molta cautela
e leggerezza avanzavamo su di essi dritti verso la meta. Da subito fu ben chiaro
che le regole del gioco erano cambiate. I chiodi erano decisamente peggio
conservati rispetto all'ultima nostra salita, e spesso ci trovavamo di fronte ad
ancoraggi casalinghi costituiti da
specie di rivetti da strozzare, piuttosto che
chiodi a pressione ricavati da piastrine metalliche dove nel piccolo foro di
testa i moschettoni non entravano. Altre rarità d'annata erano le stanghette di
ferro conficcate a mo’ di chiodo, oppure dei chiodi a lama che là dove non
entrati erano interamente ripiegati sulla parete per evitarne il braccio di
leva. Insomma tutte cose da affrontare con calma e pazienza. Una volta giunti
alla cengia che taglia a ¾ la parete, denominata da noi la “La cengia degli
Dei”, ci concedemmo un attimo di pausa per rilassarsi e gustare una magnifica
vista sul mare della Versilia e del golfo di La Spezia. Rinfrancati un po' e
soddisfatti dei risultati ottenuti fin lì, ripartii io da capo cordata alla
volta dell'orrido diedro nero che ci avrebbe in poco meno di 100 metri condotto
alla sommità. Le regole del gioco erano in continua mutazione, e la fila di
chiodi da staffare erano ora finiti. La fessura che segna il centro del diedro
era in buona parte tutta da proteggere, e dei cunei di legno, sicuramente usati
all'epoca, nessuna traccia. Qualche passo di libera dura, si intercalava alle
staffate, magari solo nel tentativo di piazzare il successivo dispositivo a
camme un po' più in alto. Una volta un tizio in valle dell'Orco mi disse che fin
che c'è fessura c'è speranza, ed io fedele a questo motto continuavo nella
salita. Ad un certo punto però la tanto amica fessura, che mi offriva
protezione, terminava, rastremandosi in un pilastrino. Mi vedo costretto prima a
staffarlo, poi a salirci direttamente sopra, ed in un infruttuoso tentativo di
andare oltre, il mio pulpito di roccia vide bene di precipitare sgretolandosi
alla base sotto i miei piedi. Ci fu appena il tempo di gridare il nome di Nicola
per ricordargli il suo dovere di assicuratore, che lui si vide passare vicino il
suddetto pilastro a rendergli omaggio e dopo un istante arrivai anche io a
fargli visita. Ci ritrovammo alla stessa altezza a penzolare nel vuoto, come 2
salami a stagionare, io caduto dall'alto, e lui strappato dalla sosta ,
fortunatamente illesi dopo aver schivato la colonna di pietra. Nuovamente al
punto di partenza come in una partita di ”Monopoli” ripartii fiducioso nelle
potenzialità di quelle protezioni precarie, che invece si erano guadagnate tutta
la mia stima avendo arrestato egregiamente la mia caduta. Una piccola sequenza
di cliff ( gancetti da roccia ) mi tolse d'impiccio, e potemmo così proseguire
nella parte alta della via. Prossimi all'uscita della parete c'è poi da fare
sempre i conti oltre che con la stanchezza, con il caratteristico bordo /
cornice che contraddistingue quella parete. A causa dell'acqua che cola da
sopra, gli ultimi metri di ogni via sono quelli in peggior stato di
conservazione, ed in questo caso specifico, l'ultima prova di coraggio consiste
nello staffare un'inquietante cordone muschiato d'annata per guadagnare il
bordo. Per la seconda volta ci ritrovammo sul crinale del Nona ad ammirare le
stelle, nel nostro silenzio, fieri di questo tuffo nel passato. Bramoso di
sapere la storia dalla bocca di chi l'ha scritta, nei giorni successivi dopo
alcune ricerche riuscii a reperire il telefono di Gianluigi Vaccari, e non prima
di essermi complimentato con lui per l'apertura di quella via avvenuta ben 43
anni prima mi sono fatto raccontare tutti i retro scena di quell'impresa
mirabile. Mi spiegò la storia del sacchetto di materiale rinvenuto in parete ed
appartenuto ai fratelli Ceragioli, pieno di chiodi fatti in casa. Mi descrisse
il metodo di chiodatura e di progressione che adoperavano, svelandomi il
“trucco” del panchetto di legno per chiodare più comodi e più in alto, piuttosto
il fatto che tutti i cunei e alcuni chiodi li avevano poi rimossi. Poter parlare
con questa leggenda dell'alpinismo mi ha fatto veramente piacere, tanto più che
anni prima a Finale Ligure avevo percorso molte vie di questa ardita coppia di
alpinisti. Sono rimasto veramente stupito dalla lucidità dei dettagli e delle
emozioni che a distanza di 43 anni Gianluigi dimostra , ed il piacere di parlare
ancora una volta della loro creazione. In onore alla memoria, Io e Nicola ci
siamo permessi di lasciare un simbolico cuneo di legno penzolare dall'ultima
sosta. Dopo un simile viaggio, siamo rimasti appagati per molto tempo, e
stranamente non abbiamo questa volta sentito l'astinenza da Nona, anche se prima
dell'arrivo del caldo, siamo andati a fare la probabile prima ripetizione della
neo nata via “Il fantasma del nona”.
Con la stagione estiva, e la sua
esposizione sud ovest la parete rimane impraticabile per simili avventure,
quindi l'estate del 2008 trascorse lontana da quella montagna alla ricerca di
solide certezze. In realtà ci siamo a più riprese andati a cacciare in altri
incubi, ma se non altro all'ombra. Arrivò l'autunno e per vari motivi ci
sfuggirono le giuste giornate, poi il magnifico inverno nevoso del 2008/2009 ci
ha fatto entrambi pensare ad altro, sfruttando le non usuali condizioni che si
sono verificate fino agli ultimi sgoccioli di maggio. Alle prime avvisaglie di
sole del 2009, temendo l'arrivo di una precoce estate, i primi di maggio ci
siamo ritrovati per un veloce rodaggio, su un'altra storica via della zona. Con
l'occasione abbiamo rintracciato l'attacco dell'ultima avventura che ci mancava,
e la settimana successiva con una sveglia degna della salita al Monte Bianco,
siamo arrivati sotto la parete alle primissime luci del 23 maggio 2009, alla
volta dell'ultimo baluardo; la via “Dei Fiorentini”. Il primo tiro, una variante
di attacco, ci ha dato subito il buon giorno con il primo passo con staffa su
esile arbusto in cima ad una rampa già alti 10 metri da terra e senza nessuna
protezione. Il mio jolly l'avevo appena giocato e quindi Nicola è passato in
testa per il secondo tiro. Il solito Benassi, più di un anno prima ci aveva
messo in guardia sulla friabilità di questo secondo tiro, in diagonale e
sprotetto non difficile ma precario. Con il dovuto rispetto Nicola affronta il
famoso traverso, e giusto alla fine di esso riesce a piazzare un buon friend
0,5. Ormai era prossimo all'inizio della sezione artificiale, ma nel tentativo
di raggiungere il primo dei vetusti chiodini, la roccia che stava tenendo
esplode direttamente tra le sue dita ritrovandosi in breve ed eroicamente in
silenzio a penzolare su quel paio di camme che se pur deformandosi hanno svolto
egregiamente il loro lavoro. Una volta preso il ritmo poi i tiri si sono
succeduti uno dietro l'altro a comando alternato senza particolari intoppi fino
alla cengia. Qui il consueto riposino e ristoro, per poi sferrare l'assalto
finale. Evidentemente anche gli apritori qui si riposarono e ristorarono a
lungo, perché da questo punto la via riprende con più impegno, e alcuni passaggi
risultano decisamente difficili. Ed ecco quindi che ci accingiamo ad affrontare
l'ultimo decisivo tiro per chiudere il nostro poker. Il turno toccava a me, e la
vetta era relativamente vicina. Quante volte dalla non distante via “Fantastica”
avevo osservato quella linea di chiodi perdersi nel cielo su quel pilastro
finale. Chi sa? Mi ero sempre chiesto, se un giorno avrò mai il coraggio di
affrontare quella via? Era una domanda alla quale di proposito non avevo mai
voluto provare a dare una risposta, ben conoscendo gli arcani meccanismi del mio
cervello, di paura ed attrazione simultanea, che ogni situazione angosciante mi
scatena. Quel giorno era arrivato ed ero veramente entusiasta di essere lì,
protagonista e spettatore di me stesso. Lasciai il consueto cuneo di legno
commemorativo alla sosta e partii tranquillo e fiducioso dell'esperienza
acquisita. Feci solo tre passi che un orrido scricchiolio mi riportò subito alla
realtà. Il chiodo che stavo caricando aveva schiantato la fessura, ma
fortunatamente entrando in torsione si stabilizzò nuovamente dandomi il tempo di
organizzare la fuga verso il successivo. Toccò poi a Nicola ritrovarsi a
penzolare nel vuoto con il chiodo in mano quando fu il suo turno. Continuai
verso l'uscita con ritmo meccanico ormai automatizzato, fino all'ultima delle
sorprese. Dieci e più metri sprotetti tutt'altro che banali con un difficile
ribaltamento su un bordo pieno di erba, ghiaia e muschio, che richiesero di
spremere l'ultima goccia di energia che mi era rimasta. Per l'ennesima volta
sull'orlo di quel baratro, ci scambiammo una stretta di mano ed un sentito
“congratulazioni” vicendevole per ciò che avevamo portato a termine. Il sentiero
di rientro, ormai era divenuto familiare, ed i passi scorrevano fluidi anche se
molto pesanti. In cima al crinale prima della discesa sull'altro versante,
fermandosi un attimo a rimirar il paesaggio, scattai due foto, una a noi
protagonisti di questo viaggio nel tempo e l'altra al mare, ignoto e misterioso
il quale ci aveva fatto da sfondo, da cornice e da spettatore per questa lunga e
malinconica partita. Il poker era servito.
Ringraziamenti per le informazioni e testimonianze fornite a:
Gianluigi Vaccari Stefano Funck Alberto Benasi e la moglie Sabrina del negozio Pianeta sport. Andrea Storri del negozio Climb Carlo Malerba guida alpina.
Negozio Alta quota per il materiale fornito
Un ringraziamento speciale e le mie più sentite congratulazioni a tutti gli apritori di queste magnifiche vie.